L’arte viene dal malessere? La vita di diversi artisti, di una qualunque epoca storica, sembrerebbe suggerire proprio questo: Caravaggio, Van Gogh, Michelangelo, ma anche Kurt Cobain, Michael Jackson o Amy Winehouse, per fare degli esempi più vicini a noi.
Lo stesso Freud, in un certo senso, teorizzando un inconscio quasi esclusivamente negativo, sede di traumi, orrori inconfessabili e desideri inesprimibili, avrebbe in parte legittimato questa convinzione. Partendo da questo presupposto, infatti, in qualche modo l’arte sarebbe esclusivamente ciò che consente alla libido (energia pulsionale) associata a questi contenuti indicibili di esprimersi in forma sublimata e socialmente accettabile. Una delle conclusioni che si potrebbero trarre è quindi che lavorare sui propri aspetti oscuri, risolvere i propri traumi e risalire alle radici della sofferenza, potrebbe determinare un’inibizione della creatività e una progressiva perdita di qualità del prodotto artistico. Insomma finita (idealmente) la sofferenza, persa la capacità di trovare ispirazione dentro di sé. Ma è proprio così?
Jung sembra essere di diverso avviso. Identificare infatti l’arte come il prodotto di nuclei inconsci sublimati, secondo lo psichiatra svizzero, non fa che ridurla inevitabilmente ad un surrogato. La creatività artistica sarebbe invece una forza più potente dell’uomo, di origine quasi divina; temere che il lavoro dello psicologo possa contrapporsi ad essa e ridurne in qualche modo la portata, significherebbe semplicemente stabilire che quella non sia vera arte né tanto meno vera creatività. Questa diversa impostazione risiede nella diversa concezione di inconscio che caratterizza Freud e Jung: per il primo è il deposito del rimosso e dell’inesprimibile, pertanto obiettivo ideale della cura è esaurire l’inconscio, rendere tutto cosciente e rimuovere così il sintomo; per Jung invece, l’inconscio è inesauribile, è la madre generatrice della coscienza stessa; risolvere una nevrosi equivale a rimuovere un blocco di energia che ostacola la libera circolazione tra coscienza e inconscio, significa costruire ponti. Ecco perché se per la prima impostazione un’analisi potrebbe ridurre la capacità creativa, per la seconda potrebbe solo rinforzarla.
Un’altra psicoanalista che per tutta la vita si è dedicata al tema della creatività è stata Marion Milner, il cui lavoro purtroppo ha avuto poca diffusione. Anche lei va oltre l’impostazione freudiana e fa anzi della creatività un vero e proprio strumento terapeutico: attraverso l’arte infatti, che sia sotto forma di disegno, di gioco, di manualità, è possibile favorire il processo di simbolizzazione, creare un ponte tra la propria realtà interiore e il mondo esterno, favorirne la comunicazione, e uscire così dalla chiusura alla base del dolore e della sofferenza.